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ISANDRO OJEDA-GARCÍA⎪ «GET GOING!» 2020

Serie di ritratti «Get Going!» 2020

Isandro Ojeda-García ⎪ Foto ©Caio Licínio


Il compositore e musicista ginevrino Isandro Ojeda-García sta abbracciando una carriera da solista come performer audiovisivo. Attivo in seno all’Insub Meta Orchestra (IMO), è anche musicista e co-direttore artistico della band TRES OJOS e del festival unfold-LAB, coprodotto in collaborazione con l’Università di Ginevra. Da anni collabora, insieme ad artisti di svariata estrazione, a progetti interdisciplinari a cavallo tra composizione e improvvisazione e tra musica e videoarte. Il suo progetto di vasta portata «alt_A|V-LIB» mira tra l’altro al superamento della partitura classica sul piano tecnico e artistico tramite un sistema di comunicazione alternativo, trasversale e ibrido tra musicisti con background diversi o, addirittura, tra artisti di diverse forme di arti performative.
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ISANDRO OJEDA-GARCÍA

14.09.2021


«Dal 2018 esiste «Get Going!» come offerta di sostegno della FONDATION SUISA. Con questa nuova forma di contributo alla creazione vengono incentivati finanziariamente processi creativi e artistici che esorbitano dalle categorie convenzionali. 

OY: passeggiare in città con la mente e gli occhi aperti

Serie di ritratti «Get Going!» 2020

OY ⎪ Foto ©Paula Faraco


Joy Frempong e Marcel Blatti sono gli OY. Il duo svizzero, che ha scelto Berlino come patria adottiva, ha in programma una lunga tournée, durante la quale si lascerà ispirare dalle passeggiate in città. Il contributo «Get Going!» della FONDATION SUISA li sostiene nel loro progetto «Messages from Walls». 

Il duo OY, composto dalla cantante zurighese Joy Frempong e dal musicista bernese Marcel Blatti, travalica volutamente gli steccati di genere con il suo avant-pop impegnato e dalle sfumature vivaci. Gli album degli OY, frutto di un intenso lavoro concettuale, affrontano temi politico-sociali seguendo approcci disparati e sono spesso arricchiti con elementi audiovisivi oppure testi e immagini in forma di libro. Con il progetto «Messages from Walls», nel corso della sua prossima tournée il duo berlinese intende andare alla ricerca di messaggi sui muri nello spazio pubblico che siano in grado proprio di abbattere muri. Avvalendosi di varie collaborazioni, questi contenuti verranno trasposti visivamente in un manifesto politico-artistico che, in seguito, sfocerà in un album omonimo e in un blog parallelo.

Joy Frempong e Marcel Blatti, l’ultimo album degli OY «Space Diaspora» ha riscosso un enorme successo. A breve ne uscirà il seguito. Cosa possiamo aspettarci?

Marcel: Abbiamo unito musicalmente i nostri ultimi due album. I testi scritti da Joy per questi album sono legati da un filo conduttore al quale ci collegheremo per sviluppare ulteriormente il nostro messaggio. 

Joy: Il disco riflette ciò che sta accadendo intorno a noi. Descrive sia un post-passato che un pre-futuro (ride). Tratta di identità e di ingiustizia, ma trasmette anche aspetti positivi del nostro tempo. 

Con questo album andrete in tournée: è qui che entra in gioco il vostro progetto «Get Going!». 

Entrambi: Esatto! 

Come è nato questo progetto?

Marcel: Abbiamo organizzato svariate tournée negli ultimi anni. Questa è una grande fortuna, ma a volte la situazione diventa anche molto frenetica. Si arriva in un posto, si tiene un concerto lo stesso giorno e si riparte subito il giorno dopo. È nato quindi il desiderio di soggiornare più a lungo nei vari luoghi, cogliendo l’occasione per effettuare ricerche o scrivere nuovi brani. Le idee scaturite da questa esperienza sfoceranno anche in un live blog, un contatto alternativo con i fan lontano dai canali monopolizzati di Facebook. Tuttavia, questo «slow tour» non può essere finanziato con i soliti budget previsti per le tournée ed è qui che entra in gioco «Get Going!».

Joy: Allo stesso tempo, il contributo ci consente anche di viaggiare in modo più ecologico. Andare in tournée senza dimenticare il crescente riscaldamento globale è una questione importante per molte persone. Ci troviamo in una situazione paradossale. Non siamo una band locale, ma stiamo suscitando interesse in tutta Europa. Chi decide di praticare questa professione, ama anche spostarsi. Inoltre, gli artisti dovrebbero avere l’opportunità di intraprendere scambi culturali. Allo stesso tempo, tuttavia, abbiamo anche il dovere di realizzare tutto quanto in modo più sostenibile. 

Marcel: Ma non nella forma attualmente in voga, in cui tutti restano comodamente casa a trasmettere concerti in streaming. Il lockdown dovuto al coronavirus ha dimostrato chiaramente che questo sistema non funziona. L’energia che scaturisce da un concerto deve essere vissuta fisicamente.

Un’altra componente del vostro progetto è la riflessione sulle frasi scritte sui muri urbani. 

Joy: Passeggiando per Berlino, ci si imbatte in molte opere di street art e di graffitismo a sfondo politico. Alcune sono rivolte direttamente al quartiere, altre sono filosofiche o umoristiche. Ad esempio, c’è una pista da jogging dove a ogni giro si incontra il testo dipinto a spruzzo «Can’t keep running away». Non tutti gli slogan sono adatti come testo per un brano, ma il tentativo di esplorare i dintorni seguendo queste frasi è un modo diverso di approcciarsi a una città e alla sua cultura. 

Wall Hunting? 

Marcel: (Ride) Esatto. Tutto questo è legato al piacevole compito di tenere la mente e gli occhi aperti e al modo in cui ciò che vediamo interagisce in seguito con la nostra immaginazione. 

I brani degli OY sono molto più che musica. La realizzazione visiva, i costumi, i libri: il tutto si inserisce nel contesto di un’opera d’arte totale. Era questo il vostro piano? 

Marcel: Abbiamo semplicemente interessi molto vari. Quando una persona mette il cuore e l’anima in una band, tutti gli altri aspetti che la affascinano vi confluiscono automaticamente. Abbiamo sempre avuto ottimi contatti con altre forme d’arte, che si sono sviluppati nel corso degli anni. Coltiviamo i nostri progetti con grande amore, dalla scenografia alla scelta delle cover.

Sul blog degli OY si legge: «There is hope our society could learn lessons». L’ottimismo in un mondo in cui nulla sembra funzionare? 

Joy: A volte ci si sente impotenti contro coloro che si definiscono realisti. Ma penso che sia in corso un cambiamento nella giusta direzione. A volte le crisi innescano sconvolgimenti. La paura è che dopo pandemia di Covid le persone desiderino tornare alle condizioni «normali». Noi invece, come molti altri, vogliamo cambiare le cose e trasformare questo momento di svolta in un’occasione per operare un taglio netto. 

Che opinione avete di «Get Going!» come modello di incentivazione? 

Marcel: In Svizzera siamo progressisti per quanto riguarda la promozione della cultura. Tuttavia, è giunto il momento di trovare nuove forme che siano più vicine alla vita quotidiana degli operatori culturali. «Get Going!» rappresenta non solo un bel colpo di fortuna per noi, ma anche un formato innovativo. 

Joy: I mezzi di incentivazione sono solitamente legati alle produzioni. «Get Going!», invece, ha un’accezione più estesa ed è concepito, ad esempio, come sostegno al processo creativo. Specialmente per noi, tutto il lavoro preliminare a un nuovo progetto è molto importante. «Get Going!» rappresenta quindi un immenso sollievo. È come una nuova finestra che si apre all’orizzonte: una sensazione meravigliosa.

Interview: Rudolf Amstutz


oy-music.com

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OY

31.08.2021


Nel 2018 la FONDATION SUISA ha iniziato ad assegnare nuovi contributi alla creazione. Con il progetto «Get Going!» vengono incentivati finanziariamente processi creativi e artistici che esorbitano dalle categorie convenzionali.

Pirmin Huber: «Techno e ländler vanno a braccetto»

Serie di ritratti «Get Going!» 2020

Pirmin Huber ⎪ Foto @GM Castelberg


Rumori quotidiani elaborati elettronicamente si fondono con elementi di musica ländler per dar vita a una nuova esperienza di ascolto: è quanto il contrabbassista e compositore Pirmin Huber intende sviluppare e realizzare nel suo nuovo lavoro. Il contributo «Get Going!» lo aiuta a realizzare il suo progetto.

Da quando ha completato i suoi studi di jazz (incentrati sulla composizione) presso la Scuola universitaria professionale di Lucerna, il compositore e contrabbassista Pirmin Huber del Cantone di Svitto sperimenta nuovi modi di combinare la musica popolare svizzera con altri generi per creare nuovi sound. Attivo sia come solista che come membro del «Ländlerorchester», dei gruppi «Stereokulisse» e «Ambäck» o della formazione «Gläuffig», Huber ha rimappato la musica popolare, contaminandola con la musica techno, jazz, classica o elettronica. Con l’ausilio della manipolazione elettronica di rumori quotidiani e delle note di musica popolare del suo contrabbasso, Huber intende ora condurre una sorta di ricerca «field recording». Tutto ciò sfocerà in un’opera che sfida le nostre abitudini di ascolto, rispecchiando così la realtà di questo periodo eccezionale.

Pirmin Huber, come è nata l’idea di questo progetto?

Pirmin Huber: Pur provenendo originariamente dalla musica popolare, vale a dire dalla musica acustica, sono scivolato sempre più nella musica elettronica. Cimentandomi con nuove tecniche di registrazione, mi sono venute alcune idee che vorrei sviluppare ulteriormente. Sono cresciuto in una fattoria, dove avevamo anche una falegnameria. I rumori della sega e tutti gli altri suoni mi affascinavano e già allora cercavo di ricrearli con i miei strumenti musicali. Nel mio progetto «Get Going!» parto da suoni che posso realizzare con i miei strumenti, ovvero contrabbasso, schwyzerörgeli, chitarra, piano o glarner zither e li combino con rumori quotidiani campionati, che manipolo con l’aiuto dell’elettronica. Fin dalla mia giovinezza sono ossessionato da questa domanda: come si può creare musica da questi suoni? Ora posso permettermi alcuni strumenti che mi offrono l’opportunità di occuparmi a fondo del progetto.

Cosa viene prima? La raccolta di suoni e successivamente la composizione, o viceversa? 

È un insieme di entrambe. Durante il lavoro si aprono sempre nuove possibilità, si tratta di un processo. Per me è importante creare un’atmosfera molto specifica con la mia musica. L’opera finita è composta da diversi brani che confluiscono l’uno nell’altro o, quantomeno, si riferiscono l’uno all’altro. Si potrebbe definire come una sorta di suite.

Lei si muove attraverso diversi stili con facilità. Come bassista, lei è sempre colui che dà l’impulso. Da questa posizione, riesce a identificare relazioni o interfacce tra la musica popolare, classica, jazz, pop, rock o techno?

È possibile. In ogni caso, techno e ländler vanno a braccetto. Questo può essere difficile da comprendere dall’esterno (ride), ma l’energia che nasce quando si suona è la stessa sia nella techno che nella musica ländler, che è anche musica da ballo. Penso che sia necessario suonarle prima entrambe per sperimentare questa affinità. Nel mio progetto cerco di creare una sorta di ländler moderno con elettronica e groove.

Natura e atmosfera urbana: questi due punti contrastanti le sono necessari per trarre ispirazione?

Sì, ho bisogno di entrambi. Appena uno è assente, mi manca qualcosa. Ecco perché è anche logico che io desideri riunire questi due poli. Da molto tempo mi affido a tre colonne portanti: musica popolare, musica contemporanea e techno. Nella mia percezione, tuttavia, sono un tutt’uno. 

Il contributo «Get Going!» è inteso come un incentivo non vincolato a un risultato. Cosa ne pensa di questo modello di finanziamento? 

Lo ritengo grandioso! La libertà acquisita in questo modo stimola anche a perseguire effettivamente un obiettivo più grande. L’idea per il mio progetto era nata già da tempo, ma si frapponeva sempre qualche ostacolo. Alla fine, molto dipende dalla capacità di gestire finanziariamente un piano del genere e di portarlo a termine senza stress. «Get Going!» mi permette di realizzare proprio questo. 

Interview: Rudolf Amstutz


pirminhuber.com

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PIRMIN HUBER

29.08.2021


Nel 2018 la FONDATION SUISA ha iniziato ad assegnare nuovi contributi alla creazione. Con il progetto «Get Going!» vengono incentivati finanziariamente processi creativi e artistici che esorbitano dalle categorie convenzionali.

Il duo Zwahlen/Bergeron vuole rendere udibile e visibile l’inaudito

Serie di ritratti «Get Going!» 2019

Félix Bergeron ⎪ Foto ©Ludovic Schneiderovich


Da un lato, la tradizione secolare della musica corale, dall’altro le infinite possibilità della musica elettronica. Jérémie Zwahlen e Félix Bergeron sperimentano tra questi due poli per creare qualcosa di completamente nuovo. Il contributo finanziario «Get Going!» li aiuta a realizzare il loro progetto.

Come è noto, gli opposti si attraggono. Jérémie Zwahlen e Félix Bergeron, entrambi 33enni, siedono in un caffè di Losanna e discutono del loro progetto di ridefinire la lunga tradizione della musica corale con l’aiuto della sperimentazione elettronica. Bergeron coglie l’occasione della nostra conversazione su di loro per fare una sessione di brainstorming. Con la precisione degna di un batterista, con ritmi sempre più complessi enumera nuove possibilità per realizzare il connubio tra vecchio e nuovo, tra tradizione e avanguardia. Zwahlen ascolta con calma stoica e di tanto in tanto interviene con frasi argute. Sembra essere avvezzo a questo tipo di dialogo. «Félix è come una sigaretta fortissima e io sono il superfiltro che serve per fumarla», spiega Zwahlen e entrambi ridono.

In realtà, da ragazzi i due hanno frequentato la stessa scuola vicino a Losanna, ma poi hanno preso strade diverse. Bergeron suonava il tamburo già all’età di sei anni, ma senza trarvi la giusta soddisfazione, finché non ha assistito a un’esibizione solista di Lucas Niggli al Jazz Festival di Willisau. «Ai tamburi aveva abbinato l’elettronica. Sono rimasto del tutto sbalordito e ho capito subito che volevo farlo anch’io!», racconta Bergeron. Zwahlen, invece, è cresciuto nella tradizione della musica bandistica e ha suonato la tromba in un’orchestrina, seguendo le orme del padre e del nonno. La madre invece cantava nel coro. «Al liceo», racconta Zwahlen, «mi hanno detto che sarei diventato un buon insegnante di musica e così ho iniziato la mia formazione.»

Entrambi hanno frequentato la Haute Ecole de Musique Lausanne (HEMU), «ma io studiavo jazz e Jérémie musica classica», spiega Bergeron, «eravamo in due edifici diversi.» I due non sapevano che le loro compagne erano amiche ed è stato tramite loro che si sono ritrovati a una festa dopo tanti anni. Quando Zwahlen ha chiesto a Bergeron di inserire l’elettronica nel lavoro del Chœur Auguste da lui diretto, è nata l’idea di una collaborazione destinata ad andare ben oltre l’usuale. «Ovviamente la combinazione di coro ed elettronica non era una novità», spiega Bergeron, «ma di solito consisteva nel sostituire l’organo o il piano con un sintetizzatore. A noi questo non interessava.»

Entrambi sono predestinati a entrare in un territorio inesplorato: già nei loro progetti individuali si spingono costantemente ai confini stilistici e cercano di ridisegnare il paesaggio musicale. Con i suoi arrangiamenti incisivi e concettualmente inusuali della musica di Elvis Presley, Johnny Cash, Camille o Queen, Zwahlen ridefinisce i canoni corali e considera il coro nel suo complesso come un corpo: «Il coro è come una scultura che respira e può essere plasmata. Anche Félix lavora con vibrazioni fisicamente sperimentabili. Alla fine la musica deve poter essere toccata.»

In effetti Bergeron è fortemente influenzato dall’aspetto scultoreo. Oltre ai suoi numerosi progetti tra improvvisazione astratta, folk, punk e jazz, lavora anche per il teatro e le compagnie di danza. Per i suoi «Brushes Paintings» l’arte figurativa nasce a opera del caso, grazie alle spazzole della batteria intinte nella vernice e ai piatti rivestiti di tela. «La spontaneità nell’elettronica non esclude l’intenzionalità. È questo che mi interessa, perché vedo infinite possibilità per infrangere le forme tradizionali della musica corale.»

La musica come scultura che svela al pubblico anche i segreti che hanno portato alla sua creazione. «Vogliamo che il pubblico veda quello che succede. Come la composizione, il caso, gli arrangiamenti e l’improvvisazione si influenzano a vicenda. Il nostro progetto deve essere vissuto dal pubblico con tutti i sensi», così Zwahlen descrive la situazione iniziale e precisa: «La mia ossessione è riuscire a elaborare ogni tipo di musica in modo che piaccia a tutti. Indipendentemente che sia musica classica, popolare, jazz o sperimentale.»

Entrambi pensano che in un progetto di questo tipo ci siano tante possibilità per sperimentare a livello musicale, contenutistico e visivo e sottolineano quanto siano importanti i fattori tempo e denaro. «Grazie al contributo di «Get Going!» ci è finalmente possibile esplorare la vastità di questo territorio sconosciuto», afferma raggiante Bergeron.

Jérémie Zwahlen e Félix Bergeron: due artisti ossessionati dalla musica, che trasmettono il loro entusiasmo anche alle generazioni future come insegnanti all’HEMU e all’Ecole de jazz et musique actuelle (EJMA) di Losanna e – nel caso di Bergeron – anche all’Ecole Jeunesse & Musique di Blonay. Insieme formano l’unica sigaretta al mondo che non nuoce alla salute. Al contrario!

Rudolf Amstutz

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ZWAHLEN / BERGERON

24.08.2020

Jessiquoi: la libertà di inventare se stessi

Serie di ritratti «Get Going!» 2019

Jessiquoi ⎪ Foto ⓒManuel Lopez


La ricerca dell’identità è la sua forza creativa trainante. Grazie a essa Jessica Plattner, alias Jessiquoi, crea un’opera d’arte audiovisiva totale. «Una fucina di idee», così si definisce la trentunenne di Berna. Grazie al contributo Get Going!, nessun ostacolo si frappone più al raggiungimento dei suoi obiettivi.

«Quando sarò grande, mi piacerebbe avere un pianoforte a coda da suonare sul palco», rivela Jessica Plattner, ridendo per l’espressione scelta. La trentunenne è ovviamente cresciuta da tempo, ma da questa affermazione emerge come lei si consideri ancora un’artista su un percorso di sviluppo tutt’altro che concluso. E questo nonostante sia annoverata tra le performer più impressionanti di tutta la Svizzera nei panni del suo alter ego Jessiquoi. Oltre a comporre, Jessica si occupa anche personalmente della produzione. Gestisce anche l’aspetto visivo, creando incessantemente mondi fantastici in cui reinventa e ridefinisce costantemente se stessa con l’aiuto di paesaggi sonori elettronici a volte grezzi e a volte fini.

«Per me l’identità è qualcosa di fluido», sostiene Jessica e cita la drag queen Ru Paul: «You’re born naked. The rest is drag». Aggiunge poi: «Penso che ogni persona sia libera di reinventarsi. Non occorrono giustificazioni per volgere la propria vita in una direzione completamente nuova. È come in un videogioco, dove ognuno può scegliere il proprio avatar». 

La ricerca dell’identità come forza creativa trainante: nel caso di Jessica è anche il risultato della sua straordinaria biografia. Originaria di Berna, è emigrata in Australia con la sua famiglia poco dopo la nascita. Quando era adolescente, a suo padre è stato offerto un lavoro presso il Conservatorio di Berna e la famiglia si è trasferita nuovamente in Svizzera. Questo evento ha dato una svolta alla vita della giovane Jessica, che desiderava diventare una ballerina professionista e aveva già intrapreso il necessario percorso di formazione a Sydney. Inoltre i Plattner parlavano esclusivamente inglese a casa. «Se avessi voluto continuare la mia carriera di ballerina, sarei dovuta recarmi a Rotterdam o a Berlino. Ma volevo restare con la mia famiglia», confida. «A Berna, inizialmente, avevo la sensazione di essere una straniera e mi sentivo esclusa. Solo quando ho iniziato a parlare tedesco bernese sono diventati tutti improvvisamente gentili». Imparare la lingua le è risultato facile, il suo insegnante di tedesco la aveva perfino soprannominata «tape recorder», «perché riuscivo a riprodurre tutto perfettamente», ricorda Jessica ridendo.

Ormai privata della danza, la ricerca della propria identità in questa patria straniera è sfociata nella musica. «Avevamo sempre avuto un pianoforte a casa, ma non l’avevo mai toccato prima. Avevo seguito solo qualche lezione, ma era stato terribile. Tuttavia, improvvisamente mi sono trovata a lavorare ai miei brani personali ogni giorno», così descrive i suoi esordi musicali. 

Poi, come se la perdita del suo ambiente abituale non fosse stata un’esperienza sufficientemente amara, sette anni fa il destino ha inferto a Jessica il più duro colpo che si possa forse immaginare. Suo fratello, di due anni più giovane di lei, è deceduto. «Condividevamo tutto e da fuori ci scambiavano spesso per gemelli», rivela e racconta di come sia stato proprio il fratello a far sbocciare la sua passione per il mondo dei videogiochi e delle colonne sonore dei film.

È esattamente lì, in quei mondi dove chiunque può reinventarsi, che Jessica ha trovato la sua nuova patria come Jessiquoi. «Si potrebbe pensare che Jessiquoi sia un personaggio di fantasia, ma in realtà è solo una versione diversa di me», spiega e aggiunge: «Il personaggio può anche spaventare, perché Jessiquoi non si muove all’interno del nostro sistema fisso di chiari ruoli di genere e identità nazionali».

Adesso nei suoi album racconta proprio di questi mondi stranieri, dove le valli sono contaminate e la gente si rifugia sulle cime delle montagne e dove i piloti sono in grado di volare verso una vita migliore. Sul palcoscenico mette in pratica questa esistenza alternativa completamente da sola. Con la centrale di comando per gli effetti visivi e gli strumenti elettronici allestiti su un carretto di legno, Jessiquoi, come una sovrana assoluta, regna a suon di danza sul palcoscenico, un luogo di autodeterminazione e di costante riposizionamento. Jessiquoi crea un’opera d’arte totale che colpisce per la sua natura intransigente e con la quale ha già suscitato forte entusiasmo anche a Siviglia e a New York.

Il carretto di legno o, come lo chiama lei, il «Wägeli» è un rimando alla cultura cinese, con la quale ha una forte affinità, così come l’arpa cinese che suona dal vivo. «Alla scuola di lingue una mia amica cinese mi ha fatto appassionare alla sua cultura. Una volta, quando ero in Cina (a Shanghai, alle tre del mattino), volevo mangiare qualcosa quando ho visto un’anziana signora che cucinava sul suo carretto di legno. Un vecchio carretto nel bel mezzo di una metropoli: un’immagine che non mi ha mai abbandonato. Volevo essere io quella donna», racconta sorridendo.

Jessica considera l’autodeterminazione senza se e senza ma e la libertà di mantenere il proprio io allo stato fluido elementi necessari per la propria arte. «Credo che il compito principale degli artisti sia sognare il futuro della nostra civiltà o mostrarlo sotto una nuova luce, perché registrano, analizzano, criticano e riformulano il mondo e le persone che li circondano».

Grazie al contributo Get Going!, nessun ostacolo si frappone più a questo entusiasmante sviluppo. «Ho dovuto finanziarmi attraverso i concerti e il tempo per lavorare a nuovi brani ne ha risentito. Ora ho ottenuto il mio budget annuale in un solo colpo», dichiara raggiante. La meta finale di questo viaggio resta avvolta nel mistero: «Non so che tipo di musica creerò domani. Nascerà spontaneamente. Ma non permetterò mai a nessuno di impormi come suonare per motivi strategici di mercato. Sto lavorando alla mia identità. Io. E io soltanto».

Rudolf Amstutz


jessiquoi.com

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JESSIQUOI

18.08.2020

Michel Barengo: collezionista di sound e mago del suono al di là della zona comfort

Serie di ritratti «Get Going!» 2019

Michel Barengo ⎪ Foto ⓒMichel Barengo


Acquisire più materiale possibile e in seguito elaborarlo: questo è il credo di Michel Barengo. Il trentasettenne di Zurigo rifiuta qualsiasi zona di comfort e segue ora il proprio impulso creativo nella scena underground giapponese grazie al contributo «Get Going!».

I campanacci delle mucche, il belato delle capre, il cigolio delle porte, lo starnazzare delle galline, il dolce mormorio del vento tra gli alberi, le sirene della polizia o gli spruzzi d’acqua: nessun suono lascia indifferente Michel Barengo. L’instancabile collezionista di sound ha allestito una straordinaria audioteca di suoni di ogni sfumatura nel suo studio di casa. «Basta sedersi alla stazione degli autobus per dieci minuti a occhi chiusi. Ciò che accade rasenta l’incredibile», afferma raggiante l’architetto del suono con gli occhi che brillano di inequivocabile gioia.

Il trentasettenne di Zurigo non è un semplice hobbista con un debole per la musica fai-da-te, bensì uno dei protagonisti più ricercati nell’ambito della sonorizzazione di videogiochi o della creazione di scenari musicali per il teatro. Nel 2016 si è aggiudicato il premio della FONDATION SUISA per la miglior musica da videogioco. Tuttavia, tali lavori su commissione costituiscono solo parte dell’opera di questo artista dalle mille risorse che promuove la sua identità musicale con una visione molto chiara.

Gli strumenti di cui si è servito per realizzare professionalmente le sue idee creative sono impressionanti. Ha iniziato con il violino e la batteria a cinque anni e in seguito ha dato vita a diverse garage band con i suoi fratelli, suonando punk, metal e rock alternativo. Influenzato da Mr. Bungle e Fantômas, i progetti del cantante californiano Mike Patton, Barengo ha seguito il percorso dell’artista fino ad approdare inevitabilmente alla musica del sassofonista sperimentale newyorkese John Zorn. «Grand Guignol», l’album della band di Zorn Naked City, è stata probabilmente l’esperienza più incisiva nella vita del giovane Michel Barengo. Grezzo e raffinato allo stesso tempo, Zorn decostruisce e ricostruisce la musica a velocità mozzafiato, creando da innumerevoli minuscoli frammenti una nuvola di suoni inedita ed esplosiva.

«L’affinità di Zorn con l’underground giapponese mi ha portato a interessarmi sempre più alla scena experimental e grindcore di quel luogo. Band come Ground Zero, Korekyojinn o Ruins con Tatsuya Yoshida alla batteria, ma anche Otomo Yoshihide ai giradischi e alla chitarra sono stati elementi fondamentali per il mio lavoro sperimentale», spiega Barengo. È impossibile ignorare tali influenze nei suoi due progetti di band, il trio jazzcore Platypus e la band grind noise Five Pound Pocket Universe (5PPU).

La facilità con cui Barengo riesce a muoversi all’interno del suo cosmo di suoni, creando incessantemente ponti tra il suo percorso artistico e i lavori su commissione e percorrendoli agilmente a passo di danza, ha a che fare con la sua formazione professionale. Ha infatti intrapreso gli studi come batterista jazz presso la Winterthur Academy for Modern Music (WIAM) e ha conseguito un master in composizione per cinema, teatro e media presso l’Università delle arti di Zurigo (ZHdK).

L’ecletticità di Barengo è sempre alimentata dal desiderio di realizzare un’estetica tutta propria: lo si può riscontrare nei suoni opulenti, dal sapore hollywoodiano per i videogiochi, nelle grezze miniature della sua band 5PPU o negli arguti collage di campioni di Platypus. Un’estetica che rifugge qualsiasi previsione e impedisce all’ascoltatore di trovare pace, poiché dietro ogni singola nota ce ne può essere un’altra in agguato per sorprendere, mettere in discussione o rimappare ex novo il percorso precedentemente tracciato in un batter d’ali.

La natura dell’opera è anche il risultato del carattere del suo creatore. «Sono un tipo irrequieto», così Barengo descrive se stesso. «Ci sono veramente tanti argomenti che mi interessano. Mi annoio però anche in fretta. Devo semplicemente provare le cose. In fondo è proprio questo che ci sprona: acquisire più materiale possibile e in seguito elaborarlo. Mi piacciono gli estremi e la varietà», dichiara e aggiunge, ridendo: «Questo probabilmente perché a 13 anni ho ascoltato “Grand Guignol”. Ed ecco il risultato».

Barengo si sente a suo agio solo al di fuori della zona di comfort. Anche il suo progetto «Get Going!» nasce dal divario tra due estremi, che lo conduce in un territorio in cui da secoli predomina un’enorme tensione creativa nella discrepanza tra tradizione e modernità. L’amore di Barengo per l’underground giapponese lo ha già portato svariate volte in questo Paese, dove ora intende cimentarsi in un’impresa divisa in tre parti. «In termini concreti, ho in mente un progetto in tre fasi che prevede due soggiorni in Giappone seguiti da una riflessione e un’ulteriore elaborazione in Svizzera», spiega. «Prima di tutto vorrei analizzare la musica tradizionale giapponese e il suo adattamento alla musica contemporanea attraverso sessioni di improvvisazione sulla scena underground di Tokyo. Successivamente incontrerò 12 musicisti giapponesi in altrettanti alberghi, incidendo con ognuno di loro un brano in una stanza, composto da suoni registrati all’interno dell’albergo stesso. Infine, aspetto però non meno importante, esaminerò in Svizzera tutto il materiale raccolto e lo archivierò per i miei futuri progetti di composizione, creando una mia sound library personale». L’artista non vede l’ora di poter realizzare tutto questo grazie al sostegno finanziario del contributo «Get Going!». «Il mio progetto non rientra in alcuna categoria esistente. Non si tratta di una produzione di album né di una tournée e nemmeno di un soggiorno in atelier. «Get Going!» mi libera da qualsiasi vincolo e compromesso sul mio percorso creativo. È semplicemente geniale!», dichiara raggiante. Anche se il viaggio è stato rinviato di un anno a causa del coronavirus, il collezionista di sound e mago del suono non rimarrà certo a corto di idee così in fretta, pur restando in patria.

Rudolf Amstutz


michelbarengo.com

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MICHEL BARENGO

10.08.2020

Anna Gosteli: «Non so mai dove mi porta la vita»

Serie di ritratti «Get Going!» 2019

Anna Gosteli ⎪ Foto ©Manuel Vescoli


Nonostante una formazione d’eccezione e il successo commerciale in numerose band, il talento di Anna Gosteli stentava a salire alla ribalta. Oggi, forte di numerose esperienze confluite in un’identità musicale ardentemente cercata, la 35enne di Soletta può finalmente esprimere tutto il suo estro artistico. Grazie al contributo «Get Going! 2019», l’artista può ora contare sulla necessaria autonomia finanziaria.

Le tessere di un mosaico, distribuite casualmente, presentano un’infinita varietà di colori, ma non formano un quadro d’insieme. Per creare l’immagine finale, devono essere disposte nella loro esatta collocazione. «Di tutto un po’, senza eccellere in niente»: così Anna Gosteli esprime uno stato d’animo durato anni. E questo nonostante un’evidente preparazione in numerose discipline: lezioni di pianoforte a sette anni, poi clarinetto e coro della scuola. A casa, nel Vorarlberg austriaco, una madre chitarrista e un padre sassofonista. «Già da bambina ho sperimentato ogni stile possibile, dall’evergreen allo Schlager, e non sono mancati diversi strumenti da suonare».

Poi, a 14 anni, il trasferimento in Svizzera. A questo punto il mosaico si arricchisce di una tessera a cui ne seguiranno molte altre. A 21 anni Anna entra a far parte del quintetto indiepop fondato a Basilea «The Bianca Story». Nulla sembra ostacolare una carriera in ascesa: apparizioni alla Deutsche Oper Berlin, registrazioni agli Abbey Road Studios di Londra. «All’inizio passavo inosservata nella band», afferma la 35enne. Poi aggiunge rapidamente: «Ma ero io a sentirmi così, non era colpa dei miei colleghi uomini, che mi hanno sempre trattata alla pari». Cantante di grande talento, Anna è sempre stata la seconda voce nonostante il successo internazionale. Questa condizione, unita alla sua natura riservata, l’ha portata a immaginare una carriera più appagante.

Così, la sua emancipazione artistica è iniziata frequentando la scuola di jazz di Basilea: composizione con Hans Feigenwinter, canto con Lisette Spinnler e armonia con Lester Menezes. Oggi ci ride su, ma ammette di aver pianto quando Lester «sbottò che quello che facevo era noioso. Secondo lui cantavo fin troppo bene». Alla fine, attraverso questo rapporto di amore-odio, Anna è riuscita a mettere in discussione i ruoli che le erano stati assegnati e ad ascoltare la sua voce interiore. Lentamente ma inesorabilmente, le tessere del mosaico accumulate negli anni sembravano finalmente andare al posto giusto. E in lei cresceva la certezza che presto avrebbero creato un quadro perfetto.

Così, con Fabian Chiquet di The Bianca Story, ha fondato Chiqanne. Insieme compongono meravigliose canzoni pop dai contenuti profondi. «All’improvviso mi sono trovata a scrivere testi in tedesco e a cantarli sotto le luci della ribalta». Tuttavia, la svolta decisiva è arrivata con «Dr Schnuu und sini Tierli», una raccolta di canzoni per bambini ma anche per i loro genitori. Fu un caso, come molti altri avvenimenti della sua variegata carriera. «Non so mai dove mi porta la vita. Ma, in un certo senso, è un piano anche questo», afferma ridendo.

Un Natale di qualche anno fa Anna, già madre di un bimbo che oggi ha sei anni, stava cercando un regalo per i figli dei suoi amici. «E siccome all’epoca dovevo risparmiare, ho scritto una canzone dedicando una strofa ad ogni bambino». A «Federvieh», il brano sui pennuti, ha fatto seguito la canzone del castoro, «Biber», dedicata al compositore di colonne sonore cinematografiche Biber Gullatz (con cui spesso collabora per le musiche di film per la televisione) come ringraziamento per il suo soggiorno a Berlino. «Soltanto allora ho pensato di scrivere una raccolta di canzoni per bambini».

Sono proprio queste canzoni, che raccolgono gran parte della sua esperienza musicale, a suggerire che il mosaico di Anna Gosteli si trasformerà ben presto in un’opera strabiliante. Con molta ironia, ma anche con grande profondità di pensiero, queste canzoni mostrano tutto il talento narrativo di Gosteli, mentre la musica portata sul palco insieme alla chitarrista Martina Stutz riflette il suo percorso tra gli stili più disparati, dall’evergreen allo Schlager passando per il pop e il jazz.

«Oggi ho un sacco di idee», afferma Anna, che insegna canto al Guggenheim di Liestal ed è responsabile insieme a Evelinn Trouble del «Female Bandworkshop» per «helvetiarockt». Un’ultima ma non meno importante novità: il mosaico sarà presto completato nella neonata formazione Kid Empress. «Finalmente collaboro con tre persone musicalmente affini», afferma la giovane artista, «insieme prendiamo decisioni senza scendere a compromessi». 

«Schnuu» e il sound dallo stile trasversale di Kid Empress suggeriscono che l’iniziale «di tutto un po’, senza eccellere in niente» ha lasciato il posto a una precisa identità. «Il contributo Get Going! arriva nel momento giusto, poiché mi offre le risorse finanziarie necessarie per potermi lanciare in nuove avventure creative.» Uno splendido sorriso le illumina il viso.

Rudolf Amstutz

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ANNA GOSTELI

10.08.2020

Bertrand Denzler: Misuratore di spazi sonori e ricercatore di suoni spaziali

Serie di ritratti «Get Going!» 2018

Bertrand Denzler ⎪ Foto ⓒDimitry Shubin


Il sassofonista Bertrand Denzler oscilla continuamente tra improvvisazione e composizione per raggiungere modalità espressive sempre nuove. Adesso il cinquantacinquenne di Ginevra, che vive a Parigi, ha intenzione di ampliare ulteriormente i confini del suo dialogo artistico realizzando una «residenza itinerante». La FONDATION SUISA sostiene questo progetto con un contributo finanziario «Get Going!».

Instancabile, versatile e dinamica sono solo tre degli aggettivi con cui si potrebbe caratterizzare l’opera artistica di Bertrand Denzler. Navigando sul suo sito web, si viene subito travolti dall’enorme quantità di progetti e formazioni. Denzler scherza: «E pensare che ho ristrutturato il tutto in maniera più concisa e perspicua!». Tutto acquista però un senso a un secondo sguardo, cioè quando ci si immerge nei sound disponibili online. Solo allora si trova la visione artistica di Denzler assolutamente coerente. In un primo momento le sculture sonore finemente equilibrate sembrano richiamare un’invitante semplicità, dietro la quale però si nasconde una complessità quasi ipnotica dall’enorme forza magnetica. 

«Le mie composizioni si focalizzano principalmente non tanto sulla forma narrativa, quanto sulla struttura interna. Per questo i brani sembrano relativamente semplici, sebbene non siano facili da suonare. Il musicista non deve essere distratto da troppe idee, ma deve potersi concentrare completamente sul suono e sulla precisione», chiarisce l’artista.

Denzler definisce come spazio le sue composizioni orientate al processo. Nella maggior parte dei casi non sono scritte in maniera tradizionale, ma possiedono una struttura predefinita. «Desidero che il musicista si senta coinvolto, che partecipi con la propria testa» sottolinea Denzler. Aggiunge inoltre: «Spesso è solo la struttura temporale a essere stabilita, ma non quella ritmica. Le regole predefinite lasciano sempre aperte moltissime possibilità».

Denzler pratica questa misurazione dello spazio insieme all’esplorazione del suono spaziale con diverse formazioni, tra cui il trio Sowari, Hubbub, Denzler-Gerbal-Dörner, The Seen, Onceim e Denzler-Grip-Johansson. Al tempo stesso continua anche a evadere, improvvisando come musicista ospite in complessi musicali come l’internazionale Šalter Ensemble di Jonas Kocher, in duo con Hans Koch o semplicemente da solista.

In realtà, afferma Denzler, il suo è un curriculum piuttosto tipico per un musicista europeo della sua generazione. Tutto è iniziato con la musica classica e allo stesso tempo con l’ascolto in privato di musica pop e rock. Ma è stata la pura sete di conoscenza che gli ha fatto conoscere in tempi relativamente rapidi i più svariati modi di fare musica in tutto il mondo. «A un certo punto» afferma Denzler «il jazz è diventato la mia occupazione principale perché ero affascinato dall’improvvisazione, cioè dalla concretizzazione del pensiero in tempo reale».

Al jazz è seguita la musica libera (free music), anche se oggi Denzler è ancora impressionato e, probabilmente, tuttora influenzato dalla filosofia e dall’approccio improvvisativo di grandi artisti come Albert Ayler e John Coltrane. A differenza di molti improvvisatori che, dopo aver voltato le spalle all’approccio compositivo, non tornano più indietro, Denzler ha trovato per sé uno spazio che, oscillando tra improvvisazione e composizione, può essere sempre ricreato ex novo sul piano architettonico. «Negli ultimi dieci anni ho avuto la sensazione di improvvisare sempre all’interno dello stesso sistema. All’improvviso ho sentito il bisogno di creare strutture all’interno della mia musica».

La visione artistica di Denzler è una sorta di viaggio di esplorazione, ma non soltanto in senso figurato: l’artista vorrebbe trasferire questo «spazio», inteso come «residenza itinerante», in diversi luoghi geografici per incontrare altri musicisti e creare nuova musica insieme a loro. Finora il progetto si è arenato non solo per questioni finanziarie ma anche perché un progetto aperto di questo tipo non rientra nelle condizioni quadro di una politica di promozione convenzionale. Il contributo di incentivazione «Get Going!» della FONDATION SUISA ne rende ora possibile la realizzazione perché, citando Denzler, «mi permette di seguire la creatività, anziché una condizione predefinita». Aggiunge inoltre, raggiante, che il contributo alla creazione sembra essere studiato su misura per lui. Tra l’altro la definizione che ne dà Denzler ricorda quasi una delle sue composizioni, in cui le strutture definite dall’autore lasciano ancora aperte possibilità inaspettate…

Rudolf Amstutz


bertranddenzler.com

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BERTRAND DENZLER

07.05.2019

BERTRAND DENZLER
Portrait vidéo arttv
07.05.2019

Beat Gysin: In viaggio con e nello spazio

Serie di ritratti «Get Going!» 2018

Beat Gysin ⎪ Foto ©Roland Schmid


Luogo, tempo e spazio giocano un ruolo centrale nelle opere del compositore Beat Gysin. Nella sua «Leichtbautenreihe» («Serie di costruzioni leggere») in sei parti, l’artista concepisce appositi spazi che permettano al pubblico di confrontarsi con esperienze sonore e spaziali mutevoli. A partire dal 2021 verrà realizzata la seconda parte dell’ambizioso progetto. La FONDATION SUISA sostiene questa opera con il contributo finanziario «Get Going!».

Chimica e musica: come possono coesistere? Quella che inizialmente pare una contraddizione, acquista un senso compiuto all’interno della biografia di Beat Gysin. Cresciuto in una famiglia di musicisti, Gysin ha deciso di studiare, oltre a composizione e teoria musicale, anche chimica. L’approccio scientifico e l’analisi empirica, tipici del metodo sperimentale, sono per lui tanto essenziali quanto l’elemento artistico. «Non ho mai desiderato diventare famoso con la mia musica, quanto piuttosto trovare risposte con e nella musica», chiarisce l’artista di Basilea, oggi cinquantenne.

L’elenco delle sue opere è impressionante. Ancora più straordinaria, tuttavia, è la modalità di esecuzione delle sue composizioni. Gysin si muove costantemente al di là delle riproduzioni e delle registrazioni audio. Il luogo, il tempo e soprattutto lo spazio costituiscono elementi imprescindibili della sua pratica esecutiva. In quest’ottica, Gysin è ben lontano dall’essere «solo» un compositore e un musicista. Sarebbe invece opportuno ricorrere a termini quali ricercatore, architetto, mediatore e filosofo per comprendere appieno il suo universo.

«La mia anima è effettivamente quella di un filosofo», dichiara l’artista a tal proposito. «È questione di percezione: mi rendo conto che la musica, in tutte le sue modalità di ricezione, ha preso le distanze dallo spazio». Oggi si considera la musica come scissa dalla sua esecuzione, aggiunge l’artista, rimandando così a un punto centrale del suo lavoro: l’interazione costante tra spazio e suono. «Isolare uno dei miei brani dallo spazio sarebbe come realizzare una partitura per pianoforte di un’opera orchestrale: si riconoscerebbero le note, ma non si sentirebbe l’orchestra».

Con incredibile costanza, meticolosità e voglia di sperimentare, nei suoi innumerevoli progetti Gysin continua a sondare senza tregua la complessa interazione tra lo spazio, il suono e la conseguente percezione della musica. Lo spazio di esecuzione diventa parte integrante di un’opera d’arte che non solo offre al pubblico un’esperienza sensoriale del tutto originale, ma fornisce continuamente spunti a Gysin per lo studio di nuovi approcci e la creazione di ulteriori progetti. «Voglio scoprire cose. E inventare», così Gysin enuclea piuttosto laconico la sua pulsione artistica. In questo contesto, nel suo ruolo di compositore egli non si pone necessariamente al centro dell’attenzione, ma spesso funge «solo» da guida concettuale. Per promuovere lo scambio di idee, ha fondato a Basilea lo studio-klangraum (Spazio del suono) e il festival ZeitRäume (Spazi nel tempo).

Gysin scopre spazi sempre nuovi di cui è possibile tracciare una mappa sonora – che siano chiese, con le loro particolarità acustiche, o centrali idriche dismesse in cui l’eco si protrae fino a 30 secondi o, ancora, miniere abbandonate dove regna un silenzio quasi perfetto. E laddove non sia disponibile lo spazio naturale per proseguire l’esplorazione, esso viene concepito con soluzioni architettoniche nuove. La «Leichtbautenreihe» in sei parti costituisce una delle opere centrali nella creazione di Gysin, e non soltanto per le energie profuse nella sua realizzazione – essa rappresenta anche il passo logico successivo, ovvero creare spazi che possano essere trasportati. Si tratta di sei concetti spaziali astratti, realizzati come architetture a padiglione, in cui la singolarità delle situazioni sonore permette una nuova percezione della musica. «Chronos» (Tempo) consiste in un palcoscenico girevole simile a una giostra; in «Gitter» (Gabbia) i musicisti sono disposti «sfericamente» intorno al pubblico; in «Haus» (Casa) è possibile passeggiare nello spazio sonoro di vere e proprie abitazioni; e in «Rohre» (Tubi), di prossima realizzazione (anteprima a settembre 2019, presso il cortile interno del Museo d’arte di Basilea, nell’ambito del festival ZeitRäume), il pubblico e i musicisti si incontreranno all’interno di enormi tubazioni.

«Nelle ultime due parti, a partire dal 2023» confida Gysin «vorrei esplorare la questione degli allestimenti mobili e della loro influenza sull’ascolto. In uno dei progetti, musicisti e pubblico sono seduti su carrelli in continuo movimento. Tutto scorre incessantemente e lo spazio viene sempre ridefinito ex novo. L’ultima parte si concretizzerà in uno spazio sospeso che, come un palloncino, implode e si rigonfia di continuo». Progetti così ambiziosi non sono facilmente finanziabili per un artista. «È necessario un sostegno fin dal concepimento e i costi sono notevoli», dichiara Gysin, che aggiunge immediatamente: «Il contributo Get Going! della FONDATION SUISA è la risposta a questa sfida. Si tratta di una sorta di finanziamento per avamprogetti… e finora non è mai esistito nulla del genere».

Di questi tempi, caratterizzati da un’eventizzazione della cultura, in cui gli esperti di marketing prestano maggiore attenzione alla forma piuttosto che alla sostanza, la «Leichtbautenreihe» simboleggia anche una sorta di contromovimento artistico. «Il vantaggio è che io, nel mio ruolo di artista, concepisco l’evento nel suo complesso», rivela Gysin e aggiunge: «Al giorno d’oggi, in un mondo dominato da un sovraccarico sensoriale, è il musicista stesso a doversi impegnare per trovare la giusta collocazione per la sua musica, poiché questa non può più essere compresa al di fuori del suo contesto».

Rudolf Amstutz


beatgysin.ch

Ritratto arttv
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BEAT GYSIN

16.09.2019

Michael Künstle: «Orchestral Spaces», quando la musica si fa tangibile nello spazio durante l’ascolto

Serie di ritratti «Get Going!» 2018

Michael Künstle ⎪ Foto ⓒZakvan Biljon


Il compositore Michael Künstle si occupa nella sua opera dell’interazione tra drammaturgia del suono e suoni drammaturgici. Adesso il ventisettenne di Basilea desidera compiere un ulteriore passo avanti nella sua ricerca, rendendo il suono di un’orchestra tangibile per l’ascoltatore sul piano spaziale. La FONDATION SUISA sostiene questo progetto con il contributo finanziario «Get Going!».

La vittoria di Michael Künstle al 1° concorso internazionale per la musica da film nell’ambito del Festival del cinema di Zurigo 2012 ha lasciato di stucco l’artista, all’epoca appena ventunenne. «A quel tempo ero solo all’inizio dei miei studi» dichiara oggi, aggiungendo immediatamente: «Sto afferrando soltanto ora il significato di quel premio. È stato una sorta di evento catalizzatore, anche perché costituisce tuttora un riconoscimento alla competenza, che rimarrà per sempre nel mio curriculum».

Künstle ha prevalso su 144 concorrenti provenienti da 27 paesi, cui era stato assegnato il medesimo compito: la sonorizzazione del cortometraggio d’animazione «Evermore» di Philip Hofmänner. Guardando il film oggi, si può facilmente intuire cosa possa aver colpito la giuria di allora: Künstle ha sorpreso tutti con suoni raffinati posti interamente al servizio della narrazione cinematografica.

«Il bello della musica da film è che rappresenta il risultato di un fitto interscambio. Un film è un gioco di squadra tra innumerevoli persone ed è importante tenere conto di tutti gli aspetti: le riprese, la gestione del colore, l’allestimento scenografico…» chiarisce Künstle, lasciando trapelare la sua attrazione per il genere. «La sfida più ardua in un film è trasmettere, mediante la musica, messaggi non ancora comunicati attraverso le immagini o il parlato, ma che sono di fondamentale importanza per raccontare correttamente la storia fino alla fine».

L’elenco dei film di cui Künstle ha diretto la colonna sonora diventa sempre più nutrito: «Glow» di Gabriel Baur, «Family Practice» di Jeshua Dreyfus e «Free from you» di Viola von Scarpatetti sono solo alcuni esempi. L’entusiasmo con cui Künstle descrive le sue conoscenze specialistiche e la sua sete di sapere diviene contagioso nel corso dell’intervista  come quando racconta di alcuni grandi del settore citando, ad esempio, la conoscenza compositiva di Bernard Herrmann o la straordinaria abilità di John Williams, «le cui opere sono in perfetta sintonia con il film ma risuonano chiare come brani orchestrali al di fuori di esso. Si tratta di un obiettivo incredibilmente arduo da realizzare, perché tradizionalmente la musica sinfonica consente di creare strutture narrative più dense rispetto a un film».

Pur effettuando nella sua opera una chiara distinzione tra musica da concerto e musica da film, Künstle ammette che «nel corso della creazione l’una non può mai prescindere completamente dall’altra». Alcuni elementi sviluppati dall’artista in collaborazione con la regista Gabriel Baur per il film «Glow» sono confluiti nel brano «Résonance», interpretato dal Trio Eclipse nel 2016. «Tuttavia la mia musica da concerto si basa principalmente su forme compositive e idee strutturali che non possono essere concretizzate in un film».

Anche l’idea del progetto attualmente cofinanziato dalla FONDATION SUISA nell’ambito del contributo «Get Going!» nasce da un altro importante aspetto dell’opera di Künstle. L’artista persegue, come egli stesso sottolinea, una filosofia dell’«autenticità», che comprende anche una rappresentazione più accurata possibile dell’esecuzione, utilizzando le più moderne modalità di registrazione. In collaborazione con il suo partner di lavoro Daniel Dettwiler, proprietario dello studio «Idee und Klang» (Idea e suono) di Basilea e da anni alla ricerca di nuove possibilità di registrazione, Künstle mira a creare una composizione spaziale tale da far vivere un’esperienza uditiva senza precedenti.

«Nella musica contemporanea lo spazio viene spesso equiparato ad altri elementi compositivi come il motivo o il ritmo, ma quasi sempre nella registrazione questo aspetto essenziale va perso», spiega l’artista. «Vorrei che lo spazio tridimensionale riempito dall’orchestra durante la registrazione fosse percepito attraverso le cuffie come se la musica si potesse letteralmente toccare». Per Künstle l’esplorazione e, in un certo senso, anche la conquista di questi «Orchestral Spaces» sono rimaste per molti anni solo un’idea perché, come egli stesso sottolinea, «sono realizzabili esclusivamente in uno studio che possa offrire il miglior suono possibile e i migliori microfoni esistenti». Grazie al contributo «Get Going!», questo ulteriore passo verso una rivoluzione audiofila sta diventando realtà all’interno degli storici Abbey Road Studios di Londra, con un’orchestra composta da 80 strumentisti. A tale scopo Künstle scriverà una composizione in cui lo spazio di registrazione rivesta un ruolo centrale. «Vorrei invertire il processo di composizione» sottolinea, chiarendo l’obiettivo del suo progetto – proprio come nella musica da film, in cui si parte, prima che da ogni altra cosa, da ciò che si ascolta. E con questo il cerchio si chiude.

Rudolf Amstutz


michaelkuenstle.ch

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MICHAEL KÜNSTLE

10.09.2019